Il professor Nicola Casagli, geologo dell’Università di Firenze, interviene nel merito della tragica alluvione che ha colpito la Toscana: “Invece che cimentarsi in un’inutile caccia al colpevole bisognerebbe concentrare l’attenzione su ciò che è utile per mitigare il rischio”
È successo di nuovo: le prime forti piogge autunnali hanno prodotto alluvioni e frane con ingentissimi danni alla popolazione, alle strutture e alle infrastrutture, ai beni culturali e all’ambiente. Eppure a Firenze la stessa cosa è accaduta almeno 56 volte negli ultimi mille anni (in media un’alluvione ogni 18 anni) e nell’area della Piana di Firenze-Prato-Pistoia quattro volte solo nell’ultimo secolo: nel 1926, 1966, 1991 e 1992 (in media ogni 25 anni e sempre fra la fine di ottobre e i primi giorni di novembre).
Invece di riflettere sulle reali cause del problema, molti si stanno lanciando nella ricerca del colpevole, del capro espiatorio, nell’ingenua certezza che colpendolo severamente il dissesto idrogeologico potrà essere magicamente risolto: c’è il Sindaco che accusa la Regione di non aver azzeccato il codice colore dell’allerta; c’è il cittadino che sui social se la prende col Consorzio di Bonifica e con la famigerata “tassa” regionale; probabilmente ci sarà anche il magistrato che aprirà un fascicolo per l’accertamento delle responsabilità, preludio dell’ennesima interminabile e controversa vicenda giudiziaria in tema di calamità più o meno naturali.
Finché queste saranno le reazioni agli eventi idrogeologici calamitosi possiamo star certi che non verremo mai a capo del cronico problema del dissesto idrogeologico
L’alluvione in Toscana segue di pochi giorni la condanna in primo grado del Sindaco di Livorno, dopo cinque lunghi anni, per non aver gestito correttamente l’alluvione del 2017 (si attendono le motivazioni della sentenza). È di soli due giorni fa la notizia dell’invio di informazioni di garanzia a sei sindaci, due funzionari dei vigili del fuoco e sei della protezione civile, per non aver saputo governare al meglio l’alluvione delle Marche del settembre 2022. In entrambi i casi si tratta – come oggi in Toscana – di eventi previsti come codici arancione, ma poi trasformatisi in catastrofi maggiori.
Finché queste saranno le reazioni agli eventi idrogeologici calamitosi possiamo star certi che non verremo mai a capo del cronico problema del dissesto idrogeologico, che ormai interessa in modo pervasivo l’intera Nazione: il 94% dei Comuni italiani sono esposti a rischio di frana, di alluvione e di erosione costiera, ed oltre il 18% del territorio è classificato a rischio elevato o molto elevato, secondo i dati ufficiali raccolti dall’Ispra.
Le cause del dissesto idrogeologico: dal cambiamento climatico all’urbanizzazione
Eppure l’individuazione del colpevole è molto semplice. Il dissesto idrogeologico, in Italia come altrove, è causato dalla micidiale combinazione di due fattori, egualmente importanti: il cambiamento climatico, che porta all’intensificazione degli eventi meteorologici estremi, e l’urbanizzazione incontrollata del territorio, che determina l’incremento degli elementi esposti a rischio e della loro vulnerabilità, oltreché la progressiva impermeabilizzazione del suolo. Il responsabile di entrambi questi fattori è uno solo: l’attività dell’Uomo, attraverso la massiccia produzione di gas climalteranti e l’inesorabile consumo di suolo che continua a crescere in Italia al ritmo di 70 ettari al giorno, come negli anni ’60 quando la popolazione e l’economia erano in costante crescita, a differenza di oggi.
Su entrambi questi fronti purtroppo non si stanno attuando difese concrete: l’Italia non si è ancora dotata di un piano di adattamento ai cambiamenti climatici e il disegno di legge sulla limitazione del consumo di suolo è fermo da anni su un binario morto in Parlamento.
Si continua invece ad assistere a capziose discussioni sulla correttezza della previsione degli eventi e sull’efficacia del sistema di allertamento nazionale.
La scienza e la tecnologia non permettono di elaborare stime certe sulla gravità dell’evento. Di questo bisogna farsene una ragione: le previsioni e la loro incertezza intrinseca
Se è vero che il rischio idrogeologico, a differenza di quello sismico, può considerarsi prevedibile, non è altrettanto vero che le inondazioni e le frane possano essere sempre e comunque previste e, più che altro, che se ne possano sempre predire con precisione le conseguenze. I modelli previsionali su cui si basa il sistema di allertamento nazionale sono intrinsecamente affetti da un elevato grado di incertezza, sia per quanto riguarda la componente meteorologica che, soprattutto, per gli effetti al suolo in termini di inondazioni e frane.
Un’allerta codice arancione può trasformarsi facilmente in corso di evento in qualcosa di meno severo (definibile con il codice giallo) e, in qualche caso, in qualcosa di catastrofico (definibile con il codice rosso). La Scienza e la tecnologia attuali non permettono di elaborare stime certe sulla gravità dell’evento e di definire con assoluta precisione gli scenari di rischio attesi. Di questo bisogna farsene una ragione.
L’alluvione nella Piana, le cause sono molteplici
Esistono poi i concetti di caso fortuito e di forza maggiore, esplicitamente previsti nel nostro Codice penale (art.45). In questo episodio, che ha colpito il cuore della Piana di Firenze-Prato-Pistoia, si possono individuare molteplici cause predisponenti: fra queste, l’eccessiva urbanizzazione di un’area con scarsa capacità di drenaggio naturale, bonificata solo in epoca storica attraverso una rete di fossi e canali che, negli ultimi anni, sono stati deviati, manipolati e alterati, per assecondare le crescenti esigenze di sviluppo edilizio, forse senza troppa attenzione alla sicurezza idrogeologica del territorio; gli effetti del cambiamento climatico globale che – come si è detto – provocano un’intensificazione degli eventi meteorologici estremi e localizzati; la progressiva riduzione dei tempi di corrivazione del reticolo idrografico – con conseguente aumento dell’impulsività delle piene – determinata dal consumo di suolo e dall’abbandono del reticolo idrografico minore; il possibile – ma non dimostrato – indebolimento degli argini dagli apparati radicali della vegetazione o dagli scavi di animali.
Invece che cimentarsi in un’inutile caccia al colpevole bisognerebbe tutti concentrare l’attenzione sulle cose realmente utili da fare per mitigare il rischio idrogeologico
L’elemento fortuito, di palese forza maggiore, consiste nelle precipitazioni straordinarie ed eccezionali, impreviste e imprevedibili, che hanno interessato una vastissima area, estesa dalla Corsica, attraverso la Toscana settentrionale, fino alla Slovenia. Una pioggia di intensità tale da essere di per sé causa necessaria e sufficiente a determinare l’evento dannoso; anche perché si può dimostrare come essa sia caratterizzata da un tempo di ritorno pluri-centenario, a fronte di una normativa tecnica che prescrive che gli argini, le opere di difesa idraulica e di stabilizzazione dei versanti debbano essere progettati per resistere a eventi con tempo di ritorno duecentennale.
Le cose da fare (e quelle da non fare)
Invece che cimentarsi in un’inutile caccia al colpevole bisognerebbe tutti concentrare l’attenzione sulle cose realmente utili da fare per mitigare il rischio idrogeologico, restando ben consapevoli che la riduzione del rischio a zero non è ormai tecnicamente più fattibile.
In primo luogo, bisognerebbe migliorare le attuali capacità di previsione degli eventi, sia per gli aspetti meteorologici, che per quelli idrogeologici – ovvero per degli effetti al suolo. Per questo sarebbe necessario unire le forze della comunità scientifica, della pubblica amministrazione e del settore privato per costruire un gemello digitale (digital twin) idrogeologico dell’intera Nazione, ovvero una rappresentazione del territorio, con la sua idrografia, geologia, centri abitati e infrastrutture, tale da consentire simulazioni preventive e da formulare scenari di evento sempre più precisi.
Poi bisognerebbe agire sulle reali cause del problema, prendendo seri provvedimenti per limitare i fattori antropici climalteranti e per ridurre al minimo – se non azzerare – il consumo di suolo. Su quest’ultimo aspetto si può fare molto: sono necessarie una decisa semplificazione burocratica e delle opportune agevolazioni fiscali che rendano più convenienti le ristrutturazioni e le riqualificazioni delle aree già edificate e abbandonate, piuttosto che le nuove edificazioni su terreni “vergini”.
Inoltre, è necessario migliorare la pianificazione di protezione civile e collegarla in modo diretto con il sistema di allertamento nazionale, portando entrambi a conoscenza dei cittadini con il pieno utilizzo dei moderni sistemi di comunicazione e attraverso esercitazioni a tutti i livelli: il cittadino deve sapere prima cosa fare in caso di evento calamitoso, in modo da attuare tutte quelle misure di autoprotezione che consentono di limitare i danni a se stesso e agli altri.
La cosa più importante di tutte sarebbe l’avvio di un grande piano di investimenti pubblici, per 2,5 miliardi di euro per anno
Può essere molto utile l’introduzione di un sistema di copertura assicurativa obbligatoria contro le calamità naturali, come quello che è stato proposto nello schema della Legge di bilancio approvato dal Consiglio dei Ministri. Questo non tanto per disimpegnare lo Stato dal risarcimento dei danni provocati da tali calamità, quanto per avviare un percorso virtuoso tale da assecondare la percezione del rischio da parte dei cittadini e delle amministrazioni locali, attraverso la certificazione del livello di rischio per la determinazione del premio delle assicurazioni e per la valutazione del valore degli immobili e dei terreni.
Infine, la cosa più importante di tutte, sarebbe l’avvio di un grande piano di investimenti pubblici, per i quali è stato a più riprese stimato un fabbisogno di 2,5 miliardi di euro per anno (pari all’1,5 per mille del PIL) comprendente invasi, casse di espansione, opere di sistemazione idraulica e forestale, interventi di stabilizzazione dei versanti. Le Autorità di bacino distrettuali hanno già i piani per la difesa del suolo e la protezione idrogeologica, si tratta solo di attuarli. E per questo non bastano gli investimenti pubblici, serve anche la semplificazione del complesso di norme che ha reso i contratti pubblici eccessivamente complicati, alimentando anche qui un continuo e inutile contenzioso, rallentando l’azione della pubblica amministrazione e danneggiando il settore privato, in particolare le piccole e medie imprese.
Sappiamo quindi esattamente le cose che ci sarebbero da fare e quelle da non fare. Ma temo purtroppo, come la storia recente ci insegna, che non faremo le prime e che continueremo a fare le seconde.
Fonte: inToscana.it